La Cassazione torna a pronunciarsi in merito all’utilizzabilità delle evidenze probatorie emerse in sede di intercettazioni, ai fini dell’accertamento di reati diversi da quello cui il Decreto autorizzativo del G.I.P. si riferisce

Credits: Dott. Kevin Tagliarini
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Con la Pronuncia n. 25401 del 27 giugno 2024, la Quarta Sezione Penale della  Suprema Corte chiarisce che, in tema di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni operate con captatore informatico per l’accertamento di  reati diversi da quello cui il Decreto autorizzativo del Giudice per le Indagini preliminari si riferisce, la previsione di cui all’art. 270, comma 1 – bis c.p.p., nella parte in cui limita l’utilizzazione del compendio probatorio, in ordine all’accertamento  dei delitti indicati nell’art. 266, comma 2 – bis c.p.p., è riferita alle sole intercettazioni di comunicazioni  tra presenti.
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Il presente contributo si pone la finalità di indagare le ragioni sottese alla Decisione del Giudice di Legittimità, con cui è stata esclusa l’applicabilità dell’art. 270 comma 1 bis c.p.p. nell’ipotesi in cui le intercettazioni abbiano ad oggetto comunicazioni tra soggetti non presenti.
La vicenda trae origine dall’Ordinanza del Tribunale di Catanzaro che, in accoglimento dell’Appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza di rigetto del GIP, disponeva l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di soggetto indagato, in ordine al reato di cui agli artt. 73, comma 4 e 80 del D.P.R. n. 309/90.
Avverso la predetta Ordinanza, il patrocinante difensore dell’indagato proponeva Ricorso per Cassazione articolato nei motivi di seguito riassunti.
Con il primo motivo di doglianza, la difesa deduceva difetto e manifesta illogicità della motivazione.
In particolare, premettendo che l’accusa elevata a carico del ricorrente era il risultato di evidenze emerse in sede di intercettazioni di comunicazioni, effettuate a mezzo di captatore informatico, disposte nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto l’accertamento del reato di omicidio tentato, l’indagato si doleva del fatto che l’Ordinanza di accoglimento avesse fatto mal governo dei principi enucleati nella sentenza “Cavallo” della Corte di cassazione a  Sezioni Unite[1].
Nella ricostruzione dogmatica della disciplina sulle intercettazioni operata dalla precitata sentenza, il Giudice di Legittimità aveva statuito che il mero collegamento investigativo fosse inidoneo ad attrarre nell’ambito del decreto autorizzativo ulteriori fatti emersi durante l’attività di intercettazione.
Nella ricostruzione sistematica resa dalle Sezioni Unite “Cavallo”, l’identificazione del rapporto tra il reato, in relazione al quale è intervenuta l’autorizzazione all’intercettazione, e il reato emerso grazie ai risultati delle operazioni disposte è stato risolto in favore di un legame individuato nella connessione di cui all’art. 12 c.p.p., atteso che solo un vincolo qualificato è in grado di attrarre il secondo reato nella cornice delineata dal provvedimento autorizzativo del GIP, consentendo, così, la salvaguardia delle garanzie di cui all’art. 15 Cost., che vieta categoricamente il ricorso a forme indebite di autorizzazione “in bianco” e l’elusione dei divieti imposti dalla legge.
Alla luce dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha concluso ritenendo che il generale divieto di utilizzazione di risultati delle captazioni, nell’ambito di procedimenti penali diversi da quello in cui le stesse sono state disposte non opera con riferimento ai soli reati che risultino tra loro connessi, a mente dell’art. 12 c.p.p., non essendo sufficiente ai fini dell’utilizzabilità delle intercettazioni, un non meglio qualificato collegamento investigativo tra le fattispecie criminose.
Nel caso di specie, a giudizio della difesa, il Tribunale del Riesame, nel pronunciare il provvedimento con cui veniva disposta l’applicazione della misura della custodia cautelare, aveva completamente soprasseduto all’applicazione dei principi fatti propri dal Supremo Consesso, atteso che tra le fattispecie di reato contestate non poteva legittimante ravvisarsi alcun vincolo qualificato.
In secondo luogo, la difesa dell’indagato eccepiva la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione all’erronea applicazione di cui all’art. 270, comma 1 bis c.p.p.
In particolare, si evidenziava che, se, dapprima, la riforma del 2017 aveva escluso l’utilizzabilità delle evidenze emerse in sede di intercettazioni di comunicazioni, a mezzo di captatore informatico, in procedimenti penali diversi da quelli nel cui ambito venivano in origine autorizzate, fatto salvo il caso in cui le medesime fossero indispensabili per l’accertamento di reati rispetto ai quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, la riforma attuata con il D.L. n. 161 del 2019, poi convertito in Legge, propendeva per una soluzione di tutt’altro genere.
Con la Riforma in parola, veniva, infatti, prevista l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni a fini probatori, in relazione a differenti fattispecie delittuose, purché ricomprese nel novero dei reati ex art. 266, comma 2 bis c.p.p.
Il rispetto della novella legislativa del 2019 è imprescindibile, al fine di evitare che si apra la strada alla libera circolazione probatoria delle risultanze emerse in sede di captazione digitale delle comunicazioni, determinando una grave violazione del diritto costituzionalmente garantito alla segretezza della corrispondenza.
In virtù della tesi difensiva prospettata, i risultati delle intercettazioni tramite captatore sarebbero utilizzabili per l’accertamento di reati diversi, purché essi siano ricompresi nel novero di cui all’art. 266, comma 2 bis c.p.p. e connessi ex art. 12 c.p.p. al reato oggetto del Decreto autorizzativo del Giudice.
Il Supremo Consesso riteneva le doglianze formulate, con riferimento all’ambito di operatività dell’art. 270, comma 1 bis c.p.p., meritevoli di accoglimento.
La Corte rilevava, nello specifico, che il Tribunale del Riesame, a seguito di attenta esegesi della disposizione normativa richiamata, aveva ritenuto legittimità l’utilizzabilità delle risultanze emerse in sede di intercettazioni, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/90, posto che trattasi di reato per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza.
Premettendo che la norma ex art. 270 c.p.p., così come modificata dal D.L. n. 161/2019, poi convertito con modificazioni nella Legge n. 7 del 02.02.2020, concerne, al primo comma, due distinte deroghe al generale divieto di utilizzazione delle risultanze emerse in sede di intercettazioni, nell’ambito di procedimento diverso rispetto a quello in cui sono state autorizzate, la Corte si interrogava in merito all’interpretazione dell’art. 270, comma 1 bis c.p.p., la cui applicazione inerisce al caso che ci occupa.
Secondo gli Ermellini, il Tribunale di Catanzaro veniva indotto in errore dalla clausola di apertura di cui all’art. 270, comma 1 bis c.p.p., la quale fa espressamente salva la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni per l’accertamento di reati diversi per i quali il Legislatore ha previsto obbligatoriamente l’arresto in flagranza.
Ebbene, un’attenta interpretazione della disposizione induce a ritenere che le restrizioni introdotte dal Legislatore, con riferimento alle intercettazioni operate con captatore informatico, si riferiscano unicamente alle conversazioni tra presenti.
Se così non fosse, sarebbe illogica la precisazione contenuta nel secondo capoverso dell’art. 270 c.p.p., che limita all’ipotesi in cui “i risultati delle intercettazioni operate con captatore informatico abbiano ad oggetto conversazioni tra presenti” l’ulteriore specificazione del comma 1 bis della medesima disposizione, ovverosia la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni solo per l’accertamento di reati ricompresi nel novero di cui all’art. 266, comma 2 bis c.p.p.
La scelta del Legislatore di imporre simil fatta limitazione, alla luce della particolare invasività del mezzo impiegato[2], il quale consente intercettazioni “in incertam personam”, è da rinvenirsi nell’esigenza di assicurare un equo contemperamento di tutti i valori costituzionali che vengono in rilievo, secondo modalità improntate al rispetto del criterio di ragionevolezza, pur nell’ineludibile esigenza di garantire il perseguimento delle finalità proprie dell’amministrazione della giustizia.
Alla luce di quanto sopra premesso, la Corte di cassazione elaborava il principio di diritto in virtù del quale, in tema di utilizzazione dei risultatati delle intercettazioni operate a mezzo di captatore informatico, ai fini dell’accertamento di reati diversi rispetto a quello oggetto del decreto autorizzativo emesso dal GIP, la previsione di cui all’art. 270, comma 1 bis c.p.p., nella parte in cui limita l’utilizzabilità del compendio probatorio emerso per l’accertamento dei delitti di cui all’art. 266, comma 2 bis c.p.p., è riferita alle sole intercettazioni di comunicazioni tra presenti.
Preso atto di quanto sopra, il Giudice di Legittimità annullava l’Ordinanza impugnata e rimetteva la questione al Tribunale di Catanzaro, affinché analizzasse la natura e il tipo delle conversazioni intercettate poste a fondamento della gravità indiziaria, ai fini dell’applicazione della misura della custodia cautelare e, di conseguenza, ne escludesse l’utilizzabilità, ove si fosse trattato di conversazioni tra presenti. 


[1] Corte di cassazione, Sezioni Unte, Sentenza n. 51 del 28.11.2019.

[2] Come noto, il captatore informatico è un programma informatico “intrusivo” (c.d. “malware” che si installa su dispositivi mobili (cellulari, computer e tablet), dotato di diverse funzionalità. Esso, infatti, a titolo esemplificativo, consente l’intercettazione di chiamate vocali, di chat e di messaggi istantanei; permette, altresì, l’ascolto di conversazioni che si svolgano tra più persone che si trovino nelle vicinanze del dispositivo.

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Credits: Dott. Kevin Tagliarini